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𝗦𝗘 𝗩𝗘𝗡𝗘𝗭𝗜𝗔 𝗠𝗨𝗢𝗥𝗘

𝗦𝗢𝗟𝗢 𝗦𝗘 𝗩𝗘𝗡𝗘𝗭𝗜𝗔 𝗠𝗨𝗢𝗥𝗘 𝗣𝗢𝗦𝗦𝗜𝗔𝗠𝗢 𝗖𝗢𝗡𝗧𝗜𝗡𝗨𝗔𝗥𝗘 𝗔 𝗙𝗔𝗥 𝗣𝗢𝗟𝗘𝗠𝗜𝗖𝗛𝗘

Da quando l’umanità ha cominciato a vedere il mondo rappresentato per immagini in movimento su uno schermo bianco, ha imparato anche a seguire una certa sequenza del racconto. Qualcosa di realistico, educativo, poi una storia, infine la comica finale. Tra Ottocento e Novecento si è chiamato cinema, ma nel corso del secolo i mezzi sono cambiati; è arrivata la televisione, poi internet. A quel punto il format iniziale qualcuno l’ha chiamato storytelling, narrazione. Ma la sostanza è quella: come si comincia, come si prosegue e come si finisce il racconto visivo. All’inizio si cominciava e si finiva lì: c’era chi riprendeva e mostrava scene di vita quotidiana. Chi, per un inciampo della pellicola, aveva scoperto che poteva raccontare anche storie dove sparivano e apparivano le persone o le cose. Si potevano perfino tagliare le teste e farle diventare delle note musicali. Poi per motivi economici e per le evoluzioni tecniche il racconto si è allungato. Si poteva far durare l’intrattenimento più di qualche minuto e si poteva guadagnare di più aumentando il prezzo del biglietto. Dall’inizio del secolo il cinema ha percorso almeno due strade parallele: una che ha portato al racconto lungo, un’ora o un paio d’ore, come una recita teatrale o lirica. L’altra al racconto più sincopato. Nessuno di questi due format è stato mai abbandonato. Il film lo conosciamo tutti. Il format rappresentativo – la narrazione della realtà – invece è più sotterraneo ed è diventato parte integrante del nostro racconto quotidiano attraverso la televisione. Agli inizi una “serata al cinematografo” consisteva in una scansione di brevi filmati. Dapprima una scena di vita reale. Poi un raccontino breve, educativo, magari una recita di qualche minuto ispirata a un classico della letteratura e infine uno sketch, una “comica finale”. E’ quello che ci rifilano ancora oggi quando guardiamo un telegiornale. Apertura con l’attualità e la politica, poi qualche vicenda di carattere sociale, economico, infine una servizio leggero tra costume, spettacolo e ilarità. Ogni giorno, più volte al giorno, milioni, se non miliardi di persone guardano questo tipo di racconto della realtà. Non importa cosa guardiamo: il racconto consiste nel format non nel contenuto. Le cose si mettono male. La realtà è difficile. La società reagisce, fa e disfa. Ma alla fine tutto va bene. Non è stato così anche con la pandemia: “tutto andrà bene”. Saluti. Grazie per averci seguiti. A domani. Avviene così anche per Venezia. Dal secondo dopoguerra si è imposta una narrazione della città che ha pervaso anche la ricerca scientifica oltre che il racconto quotidiano da bar. Ma per Venezia tutto andrà male. La città lagunare è diventata la città che muore, non dove si muore. La morte a Venezia è diventata la morte di Venezia. Una morte che si annuncia ogni anno e che si rimanda ogni anno, per tanti motivi. Perché gli abitanti decidono di andare a vivere in altre città più “comode” o perché case, palazzi e monumenti cadono a pezzi come raccontava Indro Montanelli o perché l’acqua alta se la divora, ma se la divorano anche i turisti o gli studenti o i pendolari. E ogni previsione di morte viene dimenticata nei decenni successivi a favore di ulteriori previsioni ancora più drammatiche e definitive nei decenni a seguire. La narrazione è sempre la stessa: chiari segnali di malessere se non veri e propri sintomi di decesso. Spopolamento, cambiamenti climatici, inerzia politica e amministrativa, scarsità di risorse. Ognuno di questi sintomi ha tante diagnosi e tante possibili cure. Ma la narrazione resta sempre la stessa: il finale, che tiene in piedi tutto il racconto, contempla soltanto “la morte di Venezia”. Senza questo finale tragico non reggerebbe nessuna narrazione intermedia. Il racconto non stare in piedi. Non importa se poi dal secondo dopoguerra ad oggi lo spopolamento è sì continuato, ma molto, molto rallentato. Ad esempio dal 1951 al 1971 Venezia ha perso oltre 70 mila abitanti. Negli ultimi vent’anni, dal 2001 al 2021, ne ha persi circa 17 mila. Questo dato significa qualcosa oppure la narrazione della morte di Venezia non lo contempla? Dall’acqua alta del 1966 ad oggi sono stati stanziati per la salvaguardia di Venezia circa 15 miliardi di euro. Ha avuto qualche effetto questa pioggia di denaro fluita tra pubblico e privato? La città è stata amministrata, nel tempo, da giunte comunali di destra e, soprattutto, di sinistra. Qualcuno è responsabile di qualche decisione sbagliata o portatore di qualche decisione che si è rivelata corretta? Negli anni sessanta c’era chi sosteneva che la città non sarebbe sopravvissuta alla “monocultura turistica” (Leo J. Wollemborg su La Stampa del 7 marzo 1970.) Già sentito? Già, è questa la narrazione della morte di Venezia che si è affermata dal secondo dopoguerra e continua ad avere il suo fascino. Del resto i telegiornali non li vediamo tutti i giorni più volte al giorno?

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